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  • 1 Post By Marziana

Discussione: Bastava spostare una virgola per cambiare il destino.

  1. #1
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    Predefinito Bastava spostare una virgola per cambiare il destino.

    Bastava spostare una virgola per cambiare il destino.
    1
    Impotenza

    Erika
    AMMA.jpg
    Strofinai le mani una mano contro l’altra; avevo le dita congelate e intorpidite dal freddo, sembravano bastoncini surgelati.
    Guardai meravigliata quelle gocce di pioggia che scendevano dalle nuvole, come un pianto di disperazione per la perdita del sole. Avevo sempre considerato la pioggia un’amica, non una persona indifferente. Mi teneva compagnia, piangeva assieme a me. Sentivo che lei, almeno lei mi capiva.
    Chiusi gli occhi ed un’improvvisa folata di vento mi spostò i capelli dal viso. Era come se una forza, immensa quanto la libertà, avesse provato a impossessarsi di me. Durò pochissimo, un solo istante.
    In quello dopo mi sentivo già così chiusa, così incatenata, intrappolata. Impotente. Ero diventata un blocco di ghiaccio, però non sentivo freddo. Anzi, mi sentivo molto calda. Come a casa. Però non riuscivo a muovere una sola, singola fibra del mio piccolo e fragile corpicino.
    E poi venne sussurrando in una nuvola di fumo. «Il piccolo agnello è finito tra le fauci del lupo». Sentivo queste parole stringermi come una mano la gola, le respiravo nell’aria, le sfioravo con le labbra. Ricordo solo il colore chiaro degli occhi suoi a cui avevo scattato con i miei occhi colmi di lacrime una foto sfocata.

    «Il piccolo agnello è finito tra le fauci del lupo.»
    «Il piccolo agnello è finito tra le fauci del lupo.»
    «Il piccolo agnello è finito tra le fauci del lupo.»


    Apro gli occhi di scatto e grido in preda all’agitazione: «IL PICCOLO AGNELLO È FINITO TRA LE FAUCI DEL LUPO!».
    Segue un’orchestra di risate e fischi. Mi sento frastornata. Guardo Denise al mio fianco, cercando di capire se magari è un sogno nel sogno o è l’incubo della realtà. Il suo sguardo è più preoccupato del mio ― ci schifiamo da anni, crede che io sia da rinchiudere ― e allora realizzo che mi sono svegliata. Sento le orecchie e le guance farsi rosse per l’imbarazzo. Mi sono addormentata nel bel mezzo della lezione di Fisica e poi mi sono svegliata urlando una frase insensata. In un’altra vita sicuramente avrei riso, ma sono troppo imbarazzata per la pessima figura per poterlo fare.
    «Battaglia!» mi urla il prof. «Forse Della Corte ti ha raccontato la fiaba del lupo e delle sette caprette ed hai avuto un incubo? Perché l’incubo non è finito!» Sbatte il libro sulla cattedra con fare aggressivo.
    «Scusi, prof» dico abbattuta, a testa bassa.
    «Accetto le scuse, signorina» gradisce, con finta gentilezza. «Ma una nota non te la nega nessuno!» conclude.
    Sbuffo. Eccola. Partiamo bene, oggi.
    Denise mi da una gomitata e si arma del ghigno malefico. «Siamo a scuola, Battaglia,» bisbiglia «non in un manicomio».
    Stron*a. Sbuffo ancora e soffoco il viso tra le mani.
    Ripenso al sogno. Non è la prima volta che lo faccio. È inquietante dopo un po’. Ogni volta ce n’è un pezzo nuovo. L’ultima volta ero rimasta all’orribile sensazione di impotenza.
    Il lupo, l’agnello e gli occhi sfocati sono le nuove parti del copione.

    «Mamma, si può sapere che diavolo sta succedendo?» domando a quella donna non troppo più alta di me, dai capelli biondi e sbarazzini, legati in una coda mezza sfatta, e che solitamente chiamo mamma.
    C’è un casino tremendo, un traffico di scatoli e un viavai di quadri e mobili leggeri che lasciano casa mia per entrare in un furgone dall’aspetto poco simpatico. Do un’occhiata dentro casa e noto che è quasi vuota. E sento l’ansia tornare ad incombermi dentro.
    «Ce ne andiamo, tesoro» dice, senza stare ferma un attimo, con uno scatolo tra le braccia.
    Cosa vuol dire con questa frase? È uno scherzo, vero? Okay, non nego che dico ogni due frasi di odiare nel profondo questo posto, ma non ho mai detto di volermene andare!
    «Dove? In vacanza?» Ma più che una domanda, è una speranza.
    Poggio la cartella a terra e do una mano a mamma a caricare uno scatolo sull’antipatico.
    «A Legnano, dalla nonna» mi risponde, con un lamento di poca forza.
    Si ferma un attimo, asciuga il sudore che le si era acquattato sulla fronte e mi bacia una guancia. «Tutto okay, piccola?» Questa volta è lei a chiedere.
    «Be’, no!» Ed io a rispondere. «Oggi ho preso una nota, stavo per picchiare Denise ed ora tu mi dici che ce ne andiamo di qua?!» Mi stupisco io stessa dello schifo in cui vivo.
    Il caldo mi strine le spalle e mi soffoca. Mi fa male la testa e mi brontola lo stomaco ― un po’ per la fame, un po’ per l’arrabbiatura.
    La mamma mi guarda dispiaciuta. «Lo so, tesoro, però è successo un casino e ce ne dobbiamo andare da qui. Credimi se ti dico che lo faccio anche per il tuo bene».
    La guardo malissimo. «Certo! E papà? Non ci vedremo più spesso» dico arrabbiata. Catania - Legnano non si fa in dieci minuti.
    E i miei sono separati, quindi se vado su a Milano con mamma non riuscirò a vedere papà.
    Morirò.
    La mamma carica un paio di quadri sul furgone. «Erika, ascolta: tu e tuo padre vi sentirete per telefono e vi vedrete per webcam, e poi papà salirà almeno una volta al mese. E poi è provvisoria la cosa. Non resteremo molto lì» spiega.
    Ed io sbuffo. «Ma perché? Sembra che abbiamo ammazzato qualcuno e stiamo scappando dalla polizia! Mica siamo latitanti, mà!».
    «Piccola, Pablo è uscito dal carcere» Non voleva farmelo sapere così, lo so. Non avrebbe nemmeno voluto darlo a vedere, ma lei è la prima ad avere terrore negli occhi.


    Sono già tornata! Visto? Non ci ho messo poi molto! (:
    Allora, devo fare le cose per bene. Voglio dare il bentornato alle vecchie lettrici e commentatrici, awwawwose :3 E il benvenuto a quelle nuove.
    Io sono Erika
    BENE. Oooh! Quanto mi siete mancate!
    Okay, allora, premetto che non ho idea di cosa sto scrivendo perché non ho ancora in mente la trama. Sto buttando giù cose a cavolo, yeah :') Però lo faccio con la stessa passione, non badate.
    Che dire? Spero vi abbia attirato almeno un po' questo primo capitolo. Credevo che avrei scritto qualcosa di più carino ma non mi lamento. I primi capitoli che scrivo delle FF sono sempre i più difficili, quindi non voletemene çç
    Uhm, be', chiedo scusa per eventuali errori ortografici/di battitura, non ho avuto tempo di ricontrollare.

    AH, COSA IMPORTANTE: Dedico questo pulcino (? - 'sta FF) alla *Ila* [sperando di ritrovarmi i suoi commenti asdfghosi *w*] e un po' a tutte voi che vi siete impegnate a leggermi.

    Spero di riuscire a scrivere presto il secondo capitolo e di trovare qualche commento su questo primo. Bacioni!
    http://forum.teamworld.it/forum1743/...ml#post8206846
    Ultima modifica di Marziana; 10-05-2012 alle 16:29

  2. #2
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    Predefinito Re: Bastava spostare una virgola per cambiare il destino.

    ATTENZIONE: fate click sulla foto, prima di leggere i capitoli. Rende di più l'idea! c:

    2
    Arancione.

    Erika
    Mi sveglio di soprassalto, alzandomi col busto; stringo il lenzuolo al petto. È l’unica cosa che sento sulla pelle. Niente maglietta, niente canottiera, niente reggiseno. Schiena nuda e piedini che escono dalle lenzuola bianche. Il mal di testa mi da il tormento.
    Provo a ricordare il sogno, ma questa volta non è il solito freddo, non è la stretta alla gola, non sono i soliti occhi. Questa notte non ho sognato.
    Corro con lo sguardo fuori dalla finestra. È l’alba, saranno appena le sette. Le prime luci del sole si incastrano sulla parete al fondo della stanza e la colorano di un arancione che sa di casa, che sa di sicuro e di tranquillità. È rilassante.
    Sobbalzo dopo aver sentito un respiro farsi pesante, e giro il viso, abbastanza per poter vedere un ragazzo dormire profondamente.
    È girato a pancia in giù, col viso rivolto verso il mio cuscino; spalle larghe, schiena nuda e coperta da una costellazione di nei chiari. Il busto s’alza un poco ad ogni respiro. Mi soffermo sul viso: ha i capelli sbarazzini, portati non troppo corti, castano chiaro; il taglio degli occhi da un nonsoche di triste, ma l’espressione è serena, e le labbra sono di un bel rosso e invidiabilmente carnose. La cosa che adoro è il taglio delle basette, lunghe fino alla mandibola. Però è buffo: sembra una scimmietta!
    Torno a girarmi, tenendomi sempre il lenzuolo al petto. Inizio a mangiucchiare le unghie della mano libera e perdo lo sguardo, occupando la mente di pensieri seri: chi diavolo è? Dove sono finita? Perché sono, come dire?, nuda nel letto di uno sconosciuto?
    Lascio stare le unghie e stringo forte le labbra fra i denti. Provo a ricordare qualcosa di ieri sera, ma per quanto mi sforzi, rammento poco.
    Allora, ieri sera mamma ed io siamo andate in pizzeria; nel bel mezzo della serata mamma ha avuto una telefonata dalla nonna e mi ha lasciata lì, dicendomi tre cose: che fosse una cosa urgente, che si sarebbe fatta perdonare e di tornare subito a casa, dopo aver finito di mangiare. E poi se n’è andata. Io ho ordinato un bicchiere di birra (normale, non sono un’ubriacona) e l’ho mandato giù tutto in un sorso per la rabbia ― io e mia madre ultimamente abbiamo poco tempo per stare insieme. Probabilmente... no, okay, sicuramente ne ho ordinato un altro paio e... (okay, sono un’ubriacona).
    Dedico uno sguardo al tipo-scimmia e avvampo.
    Quanto credete sia grave regalare la propria prima volta ad uno sconosciuto ed essere irrimediabilmente ubriachi proprio in quel momento? Forse un po’. Forse un po’ troppo.
    Già m’immagino mamma chiedermi “Alla fine che hai fatto ieri sera?” ed io mentirle spudoratamente rispondendo “Niente di che, ho guardato un film”.
    Scuoto il capo e scaccio via quel pensiero. Dopo essermi assicurata che lo sconosciuto dorma ancora, mi alzo dal letto e vado in cerca dei miei vestiti. Trovo in fretta tutto ed inizio a vestirmi. Mi guardo dall’alto. Allora, mi mancano le scarpe e la giacca.
    Be’, rimando la cosa a dopo e vado in cerca di un bagno. Lo trovo alla fine del corridoio, fuori dalla stanza; mi ci chiudo dentro e mi do una lavata ai denti (le dita servono anche a fare da spazzolino!) e al viso. Mi aggiusto i capelli e poi mi guado allo specchio.
    Faccio paura: ho delle occhiaie marcate sotto agli occhi e l’espressione di chi è consapevole di avere gli ultimi minuti di vita. Be’, in poche parole, potrei essere presa per una pazza che crede di essere nel giorno di Halloween. Potrei andare in giro a bussare alle porte e chiedendo “dolcetto o scherzetto?”, sicuramente riceverei palate di caramelle.
    Quando esco dal bagno, i miei piedi inchiodano sul pavimento e i miei denti iniziano a mordere violentemente le labbra. Sposto lo sguardo dalle spalle larghe che mi bloccano il passaggio, al viso, che mi guarda dall’alto.
    Eccoli. Quegli occhi verdi che tanto mi han tormentata, così intensi, così inquietanti.
    Un sorriso si allarga sulle labbra e una mano mi scompiglia i capelli.
    «Buongiorno» dicono quelle labbra, con una voce roca ed impastata. «Finito in bagno?» Ora quella mano scivola sul mento e lo tira su e mi sfila il labbro dai denti.
    Perdo lo sguardo sulla curva strana e simpatica del suo naso, ma poi annuisco.
    Occhi verdi mi lascia un bacio leggero sulle labbra e poi entra in bagno, lasciandomi sola, con la suoneria del cellulare che si perde nel corridoio. Corro in camera e cerco il mio telefono; lo trovo tra le coperte, in fondo al letto.
    È mamma. Rispondo.
    «Erika, ma si può sapere dove caspita sei?» La sua voce mi trafigge un orecchio.
    Fingo di darmi una coltellata nello stomaco. «A... casa?» Faccio l’innocente.
    «Erika, non mi dire stron*ate!» urla. «A casa non ci sei e non hai nemmeno la macchina fotografica; se non mi dici subito dove. c*zzo. sei. tiro su un putiferio!».
    Inizio ad arrabbiarmi. Ma tanto. «Ah, ora ti preoccupi?» le chiedo, con tono sfrontato. «Ora ti preoccupi?».
    «Signorina, non permetterti di parlarmi in questo modo, eh! Sono tua madre» si difende.
    Rido. «Certo, ora sei mia madre perché ti sei preoccupata di chiedermi dove sono?» mi lascio prendere la mano ed alzo la voce. «Be’, mamma, non è così che vanno le cose! Tu... tu non ci sei più per me». Ma mi rendo conto che la mia voce mi tradisce. «Da quando siamo venute in questo schifo di paese ti sei dimenticata di avere una figlia. Ti chiudi tutto il giorno in studio coi tuoi diavolo di colori e mi lasci sola. Torni a casa quando sto già dormendo e te ne vai prima che mi svegli. Non ti sei più preoccupata di chiedermi come va la scuola, come mi sento, come va con papà».
    Dall’altro capo del telefono c’è solo silenzio. «Mi dispiace se ti sto trascurando, tesoro. Ma io lo faccio per te, per... farti star meglio» La sua voce si rompe a metà della frase.
    «Mamma, credi che riempirmi di cianfrusaglie mi renda più felice dell’averti vicina?» raccolgo con un dito quella lacrima che stava per tuffarsi dei miei occhi.
    «Mi dispiace» ripete. «Dove sei? Vengo a prenderti».
    «Non lo so, mamma. Non ne ho idea. Ti richiamo io fra poco, okay?» accordo.
    Lei annuisce, e dopo un frettoloso “ti voglio bene”, chiude la chiamata.
    Mi siedo sul letto e rimango in silenzio, col viso basso. Perdo lo sguardo sui miei piedini, ma non penso a nulla di preciso. Vado in standby. Non alzo lo sguardo nemmeno quando pendo sul fianco destro e divento la torre di Pisa.
    Solo quando la malformazione del terreno mi chiede: «Qualcosa non va?».
    Sposto il viso e punto il naso verso la voce. «È tutto okay, grazie» rispondo. «Esattamente, quanto siamo distanti da Legnano?».
    Si mette in posa e fa finta di pensarci, con un occhio chiuso e la bocca contorta. «Ad occhio e croce, direi nemmeno un millimetro» E alza le spalle. «Non sei di queste parti, giusto?».
    Faccio cenno di no col capo. «Mi sono trasferita da poco. Anche se ci venivo da bambina non mi è rimasto nulla. L’unica cosa che so e che mi aiuta è che abito nella via dove c’è la Panetteria Buon Grano» spiego.
    In cambio ricevo un sorriso. «Be’, a piedi ci vogliono cinque minuti ad arrivarci. Se vuoi posso accompagnarti. Mi pare di aver capito che tua madre ti vuole immediatamente a casa» continua.
    Lo seguo con lo sguardo, mentre si alza e prende una maglia a caso dal comò di fronte al letto. «Vi do il permesso di dirmi qual è il vostro nome, fanciulla dai biondi boccoli» dice, improvvisandosi un giovanotto di qualche secolo fa. «Il mio, intanto, è Carmine. Ma chiamatemi pure Ka, se vi è più di gusto». E così dicendo, chiude il bottone nell’asola dei bermuda beige che si è appena infilato.
    «Piacere mio, signor Carmine» m’impersono anch’io in una donzella fine ed educata. «Io sono Erika, ma credo che vi toccherà chiamarmi col mio nome e non usare nomignoli, se volete restare in vita» Fingo innocenza con un sorriso.
    Il giovanotto si apposta davanti a me e con un inchino stringe delicatamente la mia mano con la sua e vi lascia un bacio. «Lieto di fare la vostra conoscenza» dice «Erika».
    Sorrido. Se non altro ha l’aria di un tipo okay. È consolante sapere che il tipo a cui hai regalato la verginità, almeno non è uno schizzato.


    GNAAAAAAAAA! Buonpomerì v.v
    LO SO, sono in ritardo! çç Chiedo venia, sono una frana!
    Spero che però col capitolo mi son fatta perdonare v.v
    Vi è piaciuto? Mi sento alternativa, perché di solito ci metto tempo a scrivere le cose 'intime' (nelle altre FF accadevano dopo parecchi capitoli) e invece in questa siamo solo al secondo! :3
    Okay, sto degradando mentalmente ^^''
    VA BENE.
    Oh, trèsors, vi ringrassio molto per i commenti! Mi ha fatto piacere vederne già un po', ma soprattutto di vedere che le mie 'vecchie' seguaci mi stanno ancora appresso! *O*
    Spero di riuscire a scrivere presto il terzo e di poterlo postare a breve!
    Intanto ditemi che cosa ne pensate di questo!
    Bacioni!
    http://forum.teamworld.it/forum1743/...ml#post8206846
    Ambra <3 likes this.

  3. #3
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    Predefinito Re: Bastava spostare una virgola per cambiare il destino.

    3
    I fiori rubati hanno un odore diverso.

    Carmine.
    «Sempre all’attacco, eh?» Il Pedretti mi ha pizzicato l’amico ed io mi sono piegato, con un sorriso di vittoria sulle labbra.
    «Ormai non c’è neanche bisogno di confermare. Si sa che il venerdì sera Carmine Ruggiero va a caccia e trova sempre una preda succulenta per sfamarsi» gli ho detto, alzando la testa, come fa il leone per far capire agli altri abitanti della foresta chi è che comanda.
    Ma in realtà mi sono sentito un idiota, un infame, ricordando le guance di Erika avvampare per l’imbarazzo, dopo essersi scusata d’avermi macchiato le lenzuola. Si può essere orgogliosi di aver rubato la cosa più bella e pura di una piccola donna?
    Me ne vergogno un po’ anche ora, una settimana più tardi, dopo aver cacciato ed essermi sfamato di qualche altra anima docile. Si sa, il lupo perde il pelo, ma non il vizio!
    È mentre metto un po’ in ordine la mia stanza che trovo un foulard sulle calde sfumature dell’arancione. Lo stringo tra le mani e lo porto al naso. Inspiro. Subito mi viene alla mente lei, Erika, che lo stringe con rabbia nella mano sinistra e si allontana dal locale a passi lunghi, che danno quell’amara sensazione fastidiosa di fuga. L’ha dimenticato.
    Credo che farò un salto da lei a riportarglielo... non appena avrò finito di aver sistemato la stanza in modo da farla sembrare ordinata. Anzi, le porto anche qualcosa di dolce, magari dei cioccolatini; scommetto che è una tipa golosa.
    Così faccio in fretta il letto, alzo la biancheria sporca dimenticata sul pavimento, metto via i fogli con degli abbozzi di qualche canzone e nascondo le scarpe sotto al letto. Sono proprio un bravo ragazzo.
    Passo al punto due della scaletta: darsi una ripulita. Faccio una doccia al volo e asciugo i capelli il necessario per non farli gocciolare, ma li lascio bagnati (secondo me fa più figo). Aggiusto la barba in modo da non sembrare un gorilla, ma lascio lo stesso taglio; e poi mi vesto: maglietta leggera a maniche lunghe nera e senza stampe, jeans chiari e le solite scarpe. Sono a posto.
    Prendo il cellulare, il portafogli, le chiavi, metto il foulard di Erika ed esco. Passo dal negozio di alimentari all’angolo, a prendere qualcosa della Ferrero e poi mi avvio a casa Battaglia. Rubo un fiore da un’aiuola, poi mi fermo davanti alla porta di casa.
    Sento urlare. «Ah sì?» credo sia la madre. «Allora se tanto ti fa schifo restare qua, vattene pure da tuo padre! Tanto sei maggiorenne, fai il c*zzo che ti pare!».
    «Con immenso piacere!» urla Erika, la voce che si avvicina.
    «Bene!».
    «Benissimo!».
    Un attimo dopo la porta si apre. Come quando è uscita dal bagno, sabato scorso, Erika mi inchioda davanti. Mi guarda e noto subito gli occhi, leggermente lucidi, ma rabbiosi.
    «Che... cosa ci fai, qua?» chiede sorpresa, ma non esplicitamente felice.
    Ci resto un po’ di m*rda, ma d’altronde mica potevo aspettarmi che facesse i salti di gioia, no? Insomma, sono sempre quello stron*o che blablabla, verginità.
    Nascondo la mano con i dolcetti dietro la schiena e le domando retoricamente: «Momento sbagliato?», porgendole il fiore.
    Lei annuisce, accetta il fiore e lo porta al naso. «Però non mi hai risposto» continua. Mi sorpassa e inizia a camminare, uscendo dalla viuzza di ghiaia che unisce i gradini di casa sua al marciapiede.
    Iniziamo a camminare, ma il marciapiede è stretto e in due non ci stiamo, e dato che non mi va di restare dietro, scendo e mi metto al suo fianco. «Hai ragione. Be’, hai dimenticato questa» e faccio cenno col mento alla sciarpa che ho al collo.
    Lei accenna un sorriso. «Ah» e rapisce un altro po’ del profumo leggero del fiore. «Che hai lì dietro?» domanda, conquistata dalla mia mano dietro alla schiena.
    E mentre lei si sporge a guardare, io mi giro col busto e glielo impedisco. «Guarda un po’ chi è la curiosona?» la prendo in giro.
    Lei risponde con una linguaccia e arricciando il naso. «E dai, fammi vedere!» s’impunta, allungando una mano e tentando di rubarmi la “cosa misteriosa”.
    La fermo e la allontano. «Barattiamo» propongo. «Tu accetti di uscire con me stasera ed io ti faccio vedere cos’ho qua» spiego, avvicinandomi col viso al suo, che non tarda a colorarsi di rosso.
    «Ti dico un forse perché voglio prima vedere se hai qualcosa di interessante lì dietro».
    Si può fare. Tiro fuori i cioccolatini e glieli sventaglio davanti al naso. «Se questo forse diventa un potrai anche mangiarli tutti» aggiungo, dopo aver visto i suoi occhi iniziare a brillare. Le sorrido, notando anche che ha ripreso a torturarsi le labbra.
    Ma poi sul suo viso compare una smorfia. «Sarebbero cento , ma penso di essere di più che in punizione. Sai, a mio padre non va giù che gridi contro alla mamma. E di sicuro nemmeno a lei» spiega, riprendendo a camminare.
    Cerco di tirare fuori una soluzione in fretta. E grazie a Merlino, questa soluzione arriva.
    «Ci sono!» confermo alzando la voce; Erika si gira, ed io continuo. «Puoi... andare da tua madre, darle il fiore e i cioccolatini e fare la ruffiana. Con mia madre funziona sempre! Insomma, all’inizio fa la dura, ma bastano poche parole per ammorbidirla!».
    Lei mi punta complice il dito contro. «Sei un genio!» E forse si stupisce anche lei d’avermi stretto le braccia al collo. Infatti si allontana subito e deglutisce. «Però» dice riprendendosi «mi spetta un altro dolcetto, perché i miei sarò costretta a darli alla mamma».
    Sorrido e le pizzico la pelle sotto al mento. «Tutti quelli che vuoi» confermo.
    Ricambia il sorriso e mi ruba la scatoletta. «Okay, mi sa che mi tocca tornare a casa. Mia madre è più difficile da intenerire» conclude, piegando le labbra.
    Sospiro e annuisco. Prima che se ne vada la tengo a me per un braccio. «Alle otto, sotto casa tua» dico. «Prova a mancare e ti resterà il debito sia della bidonata che dei dolcetti».
    Si allunga sulle punte dei piedi e bisbiglia sulle mie labbra: «Non mancherò».
    E mi lascia così.
    Senza neanche un piccolo bacio.
    Senza neanche aver preso il foulard.
    Erika

    «Mamma» la chiamo, cercandola in cucina. Non c’è. Allora vado in salotto.
    Eccola. Mi si stringe il cuore a vederla così, col viso affondato nelle mani, le spalle tremanti per il singhiozzo, i gomiti appoggiati alle ginocchia.
    Senza dirle nulla mi siedo accanto a lei e stringo forte le mie braccia attorno alle sue spalle.
    Lei alza il viso, mi guarda e poi si nasconde tra le mie braccia docili e sottili.
    Sono una figlia cattiva. Anzi, no, lo sono diventata. Non avevo mai fatto piangere mia mamma. Mai. Allora la stringo forte, le dico di stare calma. La sua bimba è tornata.
    «Non te ne andare, Erika, non lasciare mai la mamma sola» mi chiede, stringendomi a sé a sua volta.
    «Non lo farò» sussurro. «Lo prometto» E le accarezzo la schiena.
    Le do il fiore e i cioccolatini, e alla fine le basta poco per riavere il sorriso.
    Le basta avere sua figlia accanto.


    MASSALVE! Come la va? Qui bene.
    Oh, sì. Sapete, i cicci, il 31, vengono qui (a Torino) *-* Ed io ho quasi del tutto convinto mia madre a portarci! Il problema è che abito lontanuccia da Torino e mio padre non potrà portarmici, YEAH! *troveròunmodo*
    Okay, vita della scrittrice a parte, volevo ringraziare le mie awwawwose commentatrici! *w*
    Allora, che mi dite? Com'è stato questo capitolo? Be', al solito: spero vi sia piaciuto! v.v
    Io, intanto, mi cimento le quarto: non so che cosa ne uscirà :$
    Sapete cosa fare, voi :3
    A presto, si spera!
    http://forum.teamworld.it/forum1743/...ambiare-2.html

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