Al risveglio mia moglie mi chiese se il “piccolo”, così chiamavamo affettuosamente nostro figlio minore, fosse già partito; io le risposi di si e le chiesi se si sarebbe fermato anche a dormire in quel posto; lei mi rispose affermativamente anche perché il luogo in questione non era molto lontano da casa. Si trattava di una delle prime volte che il ragazzo dormiva fuori armato di materassino e sacco a pelo, ma eravamo tranquilli perché il piccolo eremo si trovava nel retro di una chiesetta e sia lui che i suoi amici sarebbero stati al coperto. Sapevamo anche che nella stanzetta erano presenti un camino ed una piccola stufa per scaldarsi e preparare del cibo.
La sera uscimmo con degli amici per mangiare una pizza, così come fece mio figlio maggiore, oramai più che ventenne.
Ad una certa ora, più o meno verso le nove, il cielo si fece plumbeo e cominciò a cadere una pioggia intensa, e pensare che per tutto il giorno c’era stato uno splendido sole in cielo. Salutammo quindi tutti gli amici, promettendo loro che ci saremmo rivisti il giorno successivo, ma dicendo che per il momento era bene andarcene a casa. Appena usciti dalla pizzeria, il temporale si intensificò, tanto che mia moglie cominciò a preoccuparsi per nostro figlio maggiore che si trovava fuori in auto. Ricordo che mia moglie mi disse:”per fortuna che il piccolo è al sicuro in quel rifugio, speriamo che anche per il più grande sia così”.
Durante la via del ritorno si scatenò un vero e proprio inferno d’acqua ed un vento fortissimo spezzava i rami e faceva cadere foglie e frasche sull’asfalto. La pioggia batteva così forte sul parabrezza della macchina che a malapena si riusciva a scorgere la carreggiata dinanzi a noi, tanto che temendo di finire fuori strada, procedevamo a passo d’uomo.
Finalmente, dopo un quarto d’ora, l’ira di Dio si placò di colpo così come era arrivata. Io e mia moglie arrivammo a casa sempre col pensiero fisso sui nostri ragazzi. E’ pur vero che oramai erano grandi, però la sera eravamo sempre in apprensione fino a quando non li sentivamo rientrare e venire dentro la nostra camera per augurarci la buona notte. Come quasi tutti i genitori, avevamo abituato i nostri figli ad essere autonomi vivendo la propria vita in piena libertà, ma sempre tenendoli d’occhio e cercando di sapere dove andavano pur con discrezione. In questo modo li avevamo resi indipendenti ma anche consapevoli che erano parte di una famiglia affettuosa, voluta e non nata per caso.
Ricordo che quando rincasammo erano circa le ventidue, minuto più minuto meno. Io mi ero già spogliato e stavo per coricarmi, quando qualcuno suonò il campanello. Mia moglie andò a rispondere al citofono e dall’altra parte sentì la voce di un amico di Mirko che disse: “signora è successo un incidente a suo figlio”.
Quindi chiese immediatamente dove si trovasse Mirko e il ragazzo rispose: “all’ospedale”.
Ci rivestimmo in fretta, salimmo in macchina e ci dirigemmo verso l’ospedale che si trovava a poca distanza.
Durante il breve tragitto, mia moglie disse una frase sola: “per me è morto”.
Non ho la più pallida idea di ciò che le risposi, ma di certo non pensavo nemmeno lontanamente a quanto aveva detto lei.
Arrivati all’entrata del pronto soccorso, mia moglie non chiese niente a nessuno e spalancò con violenza le due o tre porte che la separavano dalla sala delle prime medicazioni. Poi di tratto lo vide: mio figlio era disteso su un lettino, esanime.
Era morto.
Lei lo abbracciò e continuò a chiamarlo per nome. Poi si voltò verso di me e disse: “cosa facciamo adesso senza il nostro Mirko?”
Io risposi: “non lo so”.
Sono quegli attimi di vita che non vorresti mai vivere, quelle situazioni che credi possano succedere solo agli altri. Ma purtroppo questa volta no; questa volta era capitato a noi.
Telefonai immediatamente a mio figlio maggiore, che si precipitò subito da noi. Poi avvisammo i parenti ed alcuni nostri amici che oggi vorrei ringraziare pubblicamente perché in quei momenti è davvero importante avere qualcuno vicino e loro erano lì.
In cielo nel frattempo si erano accese milioni di stelle.
Mia moglie chiese al medico se potevamo portare a casa nostro figlio, ma lui ci rispose di no perché quando accadono questo tipo di eventi, serve il nulla osta del magistrato di turno.
Alle quattro di mattina facemmo ritorno a casa con un sacco nero di plastica fra le mani. Dentro solo i vestiti inzuppati del nostro piccolo.
Ci buttammo sul letto per un paio d’ore, dopodiché facemmo ritorno in ospedale dal nostro ragazzo perché fino a prova contraria, vivo o morto, era e sarà per sempre nostro figlio.
Da quella notte la nostra vita è cambiata totalmente, per sempre. A volte rispondi malamente a chi non lo merita, ti arrabbi per cose futili che non meriterebbero tale atteggiamento, vorresti chiedere scusa ma non lo fai, perché desidereresti solo essere capito e non compianto.
Io, mia moglie e mio figlio maggiore siamo sempre rimasti uniti; questa è stata la grande forza della nostra famiglia.
Mirko era dolce, aveva l’animo buono e soprattutto aveva una grande dote: il rispetto per tutti, grandi e piccini. Forse sarò fin troppo presuntuoso, però la verità va detta. Ci sono tantissimi bravi ragazzi come Mirko, non è che mio figlio fosse il migliore di tutti. Tanti giovani come lui, imparano i valori della vita, grazie a genitori premurosi che educano all’attenzione e all’amore per se e per gli altri.
Quella maledetta sera dentro a quel piccolo rifugio erano in otto. Sette ragazzi ed una ragazza. Tutti amici, tutti tra i sedici e i diciannove anni, tutti ragazzi che si conoscevano fin dai tempi dell’asilo e l’oratorio lo frequentavano sempre insieme. Avevano gli stessi gusti di Mirko, gli stessi sogni, l’amore per la vita, la musica, cantare e suonare. Specialmente il suo grande amico Gianluca, che dopo la sua scomparsa gli ha scritto e dedicato una canzone, “August”.
Dentro a quella stanza c’erano una stufa a legna ed un camino aperto all’estremità superiore. I ragazzi mi spiegarono che la sera prima durante la tempesta di pioggia e fulmini, l’acqua entrava dal comignolo e che la porta d’ingresso presentava una fessura molto ampia nella parte bassa che dovrebbe essere adiacente al pavimento. Pur credendo di aver capito la dinamica dell’incidente, quest’ultima non fu mia chiara. Si disse che l’apertura del camino fosse stata coperta provvisoriamente con delle lamiere nel corso della notte o delle prime ore del giorno seguente da qualcuno che sapeva della pericolosità del manufatto e che perciò si sentiva responsabile. Fatto che sarebbe avvenuto prima che io salissi con i carabinieri per i rilievi del caso.
L’unica certezza era che un fulmine era entrato nel’eremo, provocando lievi ustioni ad alcuni ragazzi, mentre a mio figlio, che non presentava un graffio, era esploso il cuore. Avrebbe potuto essere una strage, invece solo Mirko rimase a terra esanime.
L’amico Daniele, seduto a fianco di mio figlio, non ebbe alcun danno e fu proprio lui che mi riferì le ultime parole del mio ragazzo: “Oddio, mi sono caduti gli occhiali!”. Poi fu il terrore, lo sgomento ed il buio. I ragazzi tentarono più volte il massaggio cardiaco, la respirazione bocca a bocca, ma niente. Infine due di loro caricarono il corpo sulle proprie spalle nella disperazione generale e mettendo a repentaglio la loro vita lo portarono, sotto al nubifragio, fino a valle nei pressi dell’abitazione più vicina per chiedere aiuto.
Nei giorni seguenti, mentre mi trovavo all’ospedale con un piede fratturato, gli amici di mio figlio risalirono fino al luogo dell’incidente con una pesante lapide, recante la foto di Mirko e la posarono sul muro adiacente il rifugio.
Per un figlio che muore si possono versare milioni di lacrime, si possono alzare i pugni chiusi verso il cielo, si può anche bestemmiare, ce la si può prendere con Dio come ho fatto io, ma è tutto inutile, non serve a niente di niente.
Chissà quante volte noi genitori abbiamo detto o pensato: “Io per i miei figli sarei disposto a dare la vita!”.
Ma fortunatamente a quasi tutti è mancata una cosa: l’occasione per poterlo dimostrare.
Mi sono sempre chiesto il perché di questa tragedia, e mai riuscirò a dimenticare le ultime parole che Mirko mi disse:
“Ciao papà, io vado lassù, la mamma sa dove.”
Solamente ora, dopo molto tempo, ho capito che mio figlio aveva un appuntamento con Dio.
Caro Mirko, non sarai stato un eroe, ma sei stato grande.
Ciao,
papà
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