Buondì
Anche se non ho ancora ricevuto commenti o likes, ma varie visualizzazioni, ho deciso di lasciarvi almeno il primo capitolo.
Spero vi piaccia!
Un bacione,
Giulia
P.s. devo postare il capitolo in due testi perché è troppo lungo
Capitolo 1
Quella mattina mi svegliai più confusa che mai. Era un sogno, perché sei confusa?, borbottò una voce nella mia testa, mentre il sogno che avevo appena fatto continuava ad annebbiarmi i pensieri.
Eppure sembrava così reale...
Affondai la testa sotto il cuscino e sbuffai irritata. L'immagine di quel cantante non faceva altro che interrompere ogni attimo delle mie giornate, era talmente quasi un'ossessione che riuscivo a sentire il suo profumo in casa, dei pomeriggi, quando in realtà né mio padre né mio fratello usavano quel profumo.
E poi, il suo viso... e i suoi occhi, il suo sorriso; era come se avessi una sua foto attaccata dentro alle palpebre, così che ogni volta che chiudevo gli occhi lui poteva tormentarmi.
Mi rigirai sull'altro fianco e riemersi da sotto il cuscino, aprii un occhio e da tutti quei poster e piccoli ritagli da giornalini di qualunque tipo spuntò il suo sorriso smagliante. Tutto il contrario di quel broncio di suo fratello!, borbottai mentalmente ritrovandomi a sorridere appena. Nascosi il viso tra le lenzuola e mi girai ancora una volta dall'altra parte, tastai il vuoto alla ricerca del telefono in carica sulla poltrona e premetti il tasto laterale. Aprii leggermente le palpebre e corrugai la fronte: le 11,20? E la sveglia?!
Bofonchiai qualcosa che non riuscii a capire neanch'io e notai che la sveglia era impostata alla settimana successiva. Che brava che sei a impostare la sveglia, eh? Ti farei un applauso!
La mamma bussò tre volte le nocche sulla parete di cartongesso della testata del mio letto e si schiarì la voce, «Giulia, svegliati! E' tardi!».
Feci un sospiro e mi buttai fuori dal letto, prima che lo facesse mio padre in malo modo. Mi stropicciai gli occhi con il palmo delle mani e, passando davanti la camera di mio fratello, vidi che da bravo primo figlio era sveglio già da un pezzo.
«Giulia, ma che viso hai?». Aggrottai la fronte e mi grattai il capo, sistemandomi i capelli fuori posto dietro le orecchie, «Sembri un panda, perché non ti sei struccata ieri sera?». Alzai solo le spalle, facendo segno a mia madre che non ne avevo avuto la voglia, e mi misi a sedere a gambe incrociate guardando quello che passavano alla televisione. Un piccolo esserino nero si stava stiracchiando accanto a me per poi lasciarmi una leccata sulla guancia e mordermi la mano per giocare. La mamma si avvicinò al divano e mi lasciò un leggero pizzicotto sulla guancia, «Non fai colazione?». Feci di no col capo e sbadigliai. Alzò le spalle e continuò a mettere le ultime cose nella grande valigia posata sulla cassapanca in legno.
Spostai gli occhi su mia madre, girata di spalle, sapendo che mi sarebbe mancata da morire. Era una donna normalissima, mezza statura, capelli corti color mogano, piccoli occhiali che si metteva raramente o se leggeva, e faceva la casalinga a tempo pieno (mentre mio fratello ed io la stuzzicavamo per tutto il pomeriggio). Non era affatto la tipica madre modello, di quelle descritte in modo perfetto e impeccabile nei libri che leggevo, o che realizzava i miei sogni con uno schiocco di dita. Ma la cosa che la faceva spiccare ed essere diversa da tutte le altre donne, era il fatto che era la mia mamma.
Purtroppo però non parlavamo quasi mai, di cose serie intendo, né tantomeno facevamo quei discorsi tra “madre e figlia” che si vedono sempre nei film. Piuttosto, se le protagoniste di “Una mamma per amica” ci avessero visto si sarebbero strappate i capelli dalla disperazione.
La porta d'ingresso alle mie spalle si aprì, facendone entrare mio padre seguito da mio fratello.
Abbassai subito lo sguardo, cercando di non incrociare gli occhi di mio padre. Meglio lasciar perdere, pensai cercando di non sbuffare dalla noia e dal fastidio. Non ricordo nemmeno l'ultima volta che abbiamo parlato, spesso il nostro rapporto inesistente quasi mi disgustava, ma ormai c'ero più che abituata.
Mio fratello invece era la parte migliore di me. Quando avevo nove anni e andavo in chiesa (ci credete? Io che andavo in chiesa, quasi mi fa ridere) la mia catechista chiese di scrivere il nome del proprio angelo custode e spiegarne il motivo. La mia amica del cuore Giulia (ci conosciamo da sempre, ci reputiamo sorelle a tal punto che quando i nostri genitori ci portavano a giro fermavamo le persone e affermavamo “Lei è Giulia e io sono Giulia, abbiamo lo stesso nome e siamo sorelle”. Tutt'ora ne ridiamo a crepapelle) scrisse il nome di sua nonna e spiegò, da brava bambina qual è sempre stata, che sua nonna anche se non c'era più vegliava sempre su di lei. Beatrice invece scrisse “Aurora” e presa dal panico scoppiò a piangere rinchiudendosi nel bagno. Irene fece lo stesso. Mentre i miei amici Alessio, Federico e Diego ne inventarono uno e spiegarono che avevano molta fantasia. Lorenzo invece, da bravo bambino come la mia amica Giulia, scrisse anche lui il nome del nonno defunto.
Infine, Cristina si voltò verso di me e mi chiese “E tu? Come si chiama il tuo angelo custode?”. Le consegnai il foglietto e sorridendo dissi «Giovanni». La catechista avvampò e cercando di non piangere mi chiese di spiegarle il motivo. La spiegazione fu «Perché è mio fratello e dice che mi vuole bene».
Anche se ci stuzzicavamo praticamente tutti i giorni dalla mattina alla sera, mi faceva paura nascondendosi in camera sua quando io uscivo dal bagno, e quando mi faceva arrabbiare alzavo quasi le mani, a distanza di sette anni se qualcuno mi avesse dato un biglietto dicendomi di scriverci il nome del mio angelo custode ci avrei scritto nuovamente il suo.
La mamma si affrettò a mettere di tutto e di più nella valigia, dicendoci che se avesse dimenticato qualcosa quando io sarei andata a trovarli mi sarei portata tutto dietro. Si raccomandò più e più volte che facessimo i bravi, mentre Giovanni ed io sbuffammo dicendole che tutte le sere avremmo dato una festa invitando i migliori DJ, ed io mi affrettai a dirle che se mai Giovanni mi avesse fatto incavolare sul serio lo avrei trafitto con la spada comprata al Lucca Comix lasciandolo appeso come uno spiedino.
Accarezzai il mio cane sapendo che non l'avrei vista quasi mai più, ma lasciarla a casa con me e mio fratello sarebbe stata la nostra condanna. Non avrebbe obbedito, mangiato o fatto i bisogni, avrebbe soltanto pianto ventiquattro ore su ventiquattro, e pur essendo il “mio” cane lei non si era mai affezionata a me. Con i miei invece era tutt'altro affare, senza di loro non sapeva stare. Così, se la stavano portando via loro.
«Se avete bisogno Michela e Filippo mi hanno detto che sono a vostra disposizione, anche Rosa, Giovanni e Sabrina. Oppure zia Silvana che tanto abita qua sopra alla via, e... poi insomma voi sapete cosa fare» si raccomandò mia madre montando in auto. Salutò mio fratello, che scappò di fretta in casa per una chiamata di lavoro, ed io rimasi in piedi accanto alla macchina che stava quasi per partire.
Gli occhi marroni della mamma mi guardarono, «Giulia» mormorò col finestrino abbassato. Corrugai la fronte e lei sospirò sfiorandomi una mano, «mi raccomando» disse soltanto.
Io feci di sì col capo ancora più confusa che mai e partirono, dando inizio alla mia seconda vita.
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