Kelforyn - Capitolo primo
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, 09-02-2008 alle 14:36 (833 Visite)
Kelforyn
Capitolo Primo
L’uomo si guardò attorno sospirando. Neve, stelle, silenzio e nient’altro, nient’altro a parte quella rabbia che sentiva dentro, che percepiva ovunque, indipendentemente dal posto in cui si trovava, e che lui sapeva, oramai l’aveva capito, essere diventata parte del suo carattere, della sua personalità, del suo essere. Si ricordò di quand’era bambino e quel luogo aveva voluto dire molto per lui… Chiuse gli occhi e delle immagini gli attraversarono la mente e il cuore all’improvviso, a tradimento.
Bambini, quattro o cinque bambini di età fra i sette e i dieci anni, giocano, corrono e strillano in quello stesso luogo… Ma è giorno, un caldo giorno di tarda primavera e dove ora c’è solo neve si vedono fiori, erba e farfalle. Lui è il più grande e spavaldo, il capo!
“Ma che posto è? Dove siamo? Ci siamo spinti troppo lontano dal villaggio…. Dai Kelforyn, torniamo indietro!”
A parlare era stato il più piccolo, un bimbo timido e pauroso e già affaticato dalla lunga camminata.
“Tornare indietro? Guardate dove siamo riusciti ad arrivare! Guardate che posto bellissimo, eppoi è così lontano… siamo stati bravissimi ad arrivare fin qua, gli altri bambini, al villaggio, non ci crederanno mai!”
Kelforyn aprì gli occhi, ora offuscati da un velo di lacrime, che idea tornare in quei luoghi… a che gli era servito? Vi aveva trovato solamente dolore e rabbia, nulla più. Sospirò. Dolore. Rabbia. Rimpianto. Ormai nel suo cuore non c’era altro, nella sua vita non c’era altro.
Guardò nuovamente il paesaggio innevato, mentre dall’alto del cielo le stelle continuavano a fissarlo, immobili, eterne e bellissime, belle d’una struggente bellezza, d’una bellezza che sapeva di perdita e lontananza. Si strinse inutilmente nel mantello per allontanare un freddo che sapeva venire non dall’esterno, non dalla neve tutt’intorno a lui, ma da dentro sé, dal suo cuore, e sapeva che non c’era nulla che lo potesse scaldare. Sospirò e si diresse lentamente, con l’aria e il passo di chi ormai ha perso tutto, verso un capanno che ricordava essere poco lontano da lì. Ci arrivò in poco tempo, era lì, esattamente dove ricordava che fosse, solamente era, come tutte le cose che si rammentano dall’infanzia, più malconcio e più piccolo di quanto lo ricordasse.
“Per passare la notte basterà” si disse “Ho solo bisogno di non morire assiderato, nulla più.”
Dentro v’erano solamente un mucchio di paglia e qualche ciocco di legna con i quali si accese il fuoco; dopo aver mangiato del pane e del formaggio che si era portati si distese sulla paglia cercando di dormire…
“Ora basta, è ora di andare a letto, forza! Sono stanca di dover litigare con te tutte le sere, vai a letto e basta!”
La voce di sua madre gli tornò chiara in mente, come se lei fosse lì, accanto a lui, con il suo profumo, che da piccolo lui aveva imparato ad associare alla casa, alla famiglia, alla pace.
“Dannazione, no! Basta con questi ricordi, basta!”
Kelforyn urlò queste parole quasi senza rendersene conto, cercando di sfogare la sua disperazione.
“Ma perché, perché diavolo sono tornato? Cosa aspettavo di trovare? Tutto uguale a com’era quando lo lasciai dieci anni fa? Magari mi aspettavo anche che tutto il villaggio fosse in festa, a dare il benvenuto a uno come me? A un… mostro?”
Mostro… Era questa la parola che le persone gli avevano urlato contro, scagliandola come una pietra, e, come una pietra, tirata con l’intenzione di fare più male possibile, ma la cosa peggiore era che lui lo sapeva, sapeva di essere un mostro, non poteva dar loro torto se volevano allontanarlo. Eppure non era stata colpa sua, lui per primo avrebbe voluto che non fosse mai accaduto, ma era accaduto, così, all’improvviso, quand’aveva dieci anni, qualche mese dopo aver scoperto quel bellissimo prato coi suoi amici.
Suo padre non era in casa, come altri uomini del villaggio era dovuto partire per la guerra, e a sua madre erano venute le doglie. Ricordando gli avvertimenti datigli da suo padre, era corso fuori, lungo la strada illuminata dalla luna piena, fino all’aperta campagna dove si trovava la casa di Nulav, la vecchia guaritrice e levatrice, della quale si diceva fosse anche maga. Era arrivato di corsa fin là, con le gambe doloranti e il fiato mozzo bussando con forza e frenesia alla porta della semplice casa.
“Tu aspettami qua” Disse Nulav dopo che l’ebbe ascoltato “Dopo che tua madre avrà partorito verrò a prenderti o manderò qualcuno del villaggio… Per ora là saresti più d’intralcio che d’aiuto. Mi raccomando, non uscire, una notte di luna piena nasconde molti pericoli per un bambino che vaga solitario per la campagna.” Con queste parole finì di sellare il suo cavallo e vi montò con un’agilità insospettabile in una donna della sua età.
“Ma allora” provò a ribattere Kelforyn “perché tu vai da sola?”
“Io ho i miei metodi per fuggire a lupi mannari e creature della notte!”
E dopo aver detto queste parole, con un’espressione enigmatica sul volto, spronò il cavallo al galoppo e si dileguò nella notte.
Ma il piccolo Kelforyn non ce la fece, non ce la fece a restare lì ad aspettare. Era curioso, curioso come non lo era mai stato, il suo piccolo fratellino, ansioso di sapere che sia che lui che sua madre stavano bene e temeva quella casa, la stranissima casa di Nulav, piena di enormi libri e inquietanti strumenti e alambicchi, e i misteri ch’essa sembrava celare.
Uscì dalla casa e si mise in cammino.
Camminava, cercando di scrollarsi di dosso quel vago senso d’inquietudine che gli stringeva il cuore, e, passo dopo passo, cercava di rassicurarsi.
“Stai tranquillo, Kelforyn, stai tranquillo, non c’è nessun pericolo.”
Non aveva fatto in tempo a pensare ciò che il pericolo apparve, in tutto il suo terrore.
Di fronte a lui, eretto, perfettamente visibile alla luce della luna piena stava un lupo mannaro. Alto, innaturalmente alto, ricoperto di disgustosi peli scuri, con lunghe braccia muscolose, la faccia, o meglio, il muso allungato, gli occhi rossi e bestiali, la bocca aperta in un ruggito che raggelava il sangue e mostrava terrificanti zanne lucenti. Il bambino non ebbe tempo di fuggire, non ebbe tempo di urlare, paralizzato dall’orrore vide solamente l’oscura creatura balzargli addosso e azzannargli la gola, sentì un dolore lancinante e, un attimo prima di perdere conoscenza, capì che nulla sarebbe più stato come prima e che il bambino allegro, testardo, che correva ovunque vociando e giocando se ne sarebbe andato per sempre.
Kelforyn spalancò gli occhi di scatto, da una finestra della catapecchia dove aveva trascorso la notte il sole splendeva nel cielo limpido, l’alba doveva essere passata già da qualche ora. Fuori il panorama era di un bianco accecante, il sole si rifletteva sulla neve ed il suo riverbero feriva gli occhi. Kelforyn si rimise in cammino e ad ogni passo sentiva sempre di più il peso della scelta che aveva fatto, quella di tornare a visitare un’ultima volta i luoghi dell’infanzia, visita che alla sua disperazione aveva aggiunto solo altro dolore… Li capiva, in fondo, l’avevano bandito dal villaggio a soli dieci anni perché diventato un lupo mannaro, ora, dopo dieci anni, non poteva pretendere che avessero cambiato idea, che lo accogliessero a braccia aperte. Eppure era dovuto tornare, dentro di sé aveva sentito crescere sempre più forte il bisogno di rivedere quei luoghi un’altra volta, l’ultima, prima di dirigersi verso la Valle.
La Valle… Per dieci anni aveva rifiutato l’idea di andarci, di unirsi alle altre Creature della Notte, che lì risiedevano sotto il controllo dei Guardiani di Ombre, ma da quasi un anno la sua sicurezza aveva cominciato a svanire, e l’idea di raggiungere anche lui la Valle aveva cominciato a farsi strada nella sua mente, fino a quando, qualche mese prima, si era rassegnato all’idea di andare una volta per tutte in quel luogo maledetto.
Una ragazza, solo una ragazza e l’averla conosciuta e amata, aveva fatto sì che lui cambiasse idea: lei era stata l’unica persona in grado di infondergli speranza, l’unico spiraglio di luce nei suoi giorni bui, e la sua morte l’aveva lasciato nella più totale disperazione, con lei era morto anche l’ultimo barlume di speranza di riuscire ad avere una vita normale e lui aveva iniziato ad arrendersi a quell’idea contro cui aveva lottato fin da quando era venuto a conoscenza dell’esistenza della Valle.
“Silnan.”
Il suono del suo nome fu per un attimo di enorme conforto, come il suono cristallino di un ruscello è di conforto ad un assetato, ma quella sensazione di calore durò quanto un battito di ciglia, per poi svanire e lasciarlo con la sua solitudine.
Si alzò, prima di lasciarsi alle spalle quei luoghi per sempre doveva parlare un’ultima volta con Nulav, non sapeva bene il perché, ma sentiva di doverlo fare e, in fondo, lei era stata l’unica, a parte la sua famiglia, a mostrarsi comprensiva verso di lui, quand’era diventato un lupo mannaro.
Raggiunse in breve tempo la sua casa, bussò alla porta e dall’interno una voce bassa, troppo bassa, forse, per una donna rispose:
“Avanti.”
Lui entrò nella stanza più grande della casa, dove Nulav sedeva, dando le spalle all’entrata, intenta a scrivere su di un grosso libro; il raschiare della piuma era l’unico rumore nel silenzio della casa.
Kelforyn rimase immobile, in silenzio senza sapere cosa fare o cosa dire, improvvisamente e inspiegabilmente colmo d’ansia, trattenendo il respiro. Fortunatamente non ebbe bisogno di fare nulla, semplicemente vide le spalle della donna alzarsi e sentì il rumore della penna interrompersi.
“Buongiorno Kelforyn, ti stavo aspettando.”
continua...