Verso il mondo che non c’è.
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Casa dopo due giorni, casa dopo una boccata d’ossigeno, una bella boccata d’ossigeno, ma iniziamo dal principio:
Venerdì 21 maggio.
La sveglia che suona alle 7.10 del mattino mi tira fuori da un sonno ansioso, carico di voglia d’andar via. La strada per la scuola, la valigia in macchina, lo zaino pesante per il dizionario di latino ed il tempo che non passa mai. Ogni minuto che passa sembra durare un eternità e poi quell’istante in cui sembra accelerare, quando salgo in macchina della mia amica, di quell’amica che è parte di me. E l’attesa del treno, l’ansia di perdere la coincidenza per Prato a Viareggio, il vecchio che ascolta Mika, il controllore che ci guarda con la coda dell’occhio e tira dritto, capire che il treno fermerà a Piscia anziché a Pescia, le risate che scoppiano per le minime cosa. Prato, il treno che arriva al binario 2 e la coincidenza è al 7, la corsa per arrivare al treno per poi sedersi soddisfatte di esserci riuscite, i nomi di posti mai sentiti in vita nostra, una cinese che faceva versi equivoci succhiandosi le dita e che aveva 2 o 3 cellulari uno diverso dall’altro. L’arrivo a Bologna, quella città che mi ha colpito, la zia della Mary che mi ha fatto sganasciare dalle risate fino all’ultimo minuto di questo weekend.
I colli bolognesi che cantavano i Luna Pop, il verde dei campi macchiato dal rosso dei tulipani, i gatti, l’asino, il pony, le oche gelose del loro territorio e soprattutto Mimmo il criceto e le paperelle.
E rimanere sveglie in una piazza e mezzo di letto a parlare fino alle 2.00 di notte, parlare di tutto e parlare di niente, parlare di cose serie e di quel rumore che non abbiamo ancora decifrato. E l’ansia che intanto cresceva nelle vene, nelle mie vene.
Sabato 22 maggio.
Il giorno cruciale. Il giorno per cui siamo andate fino a Bologna, oltre per una boccata d’aria diversa. L’ansia che cresceva mentre iniziano i preparativi. Cambiare canzone quando passavano loro perché c’era troppa ansia per riuscire a sentirli. Uscire di casa coi capelli piastrati ed un ciuffo ribelle che è rimasto mosso, con il trucco che rischia di sciogliersi per il caldo e l’ansia che cresceva nelle vene. Il giro in piazzola, il mercato, la gente strana, gli occhiali da tamarro che ho comprato per 3 euro, gli occhiali a dir poco truzzi bianchi a forma di bocca e quelli a cuore viola per due foto esileranti, il pranzo buttato giù quasi a forza per quel nodo allo stomaco che si stava stringendo di più e la camminata fino al numero 16 di via Indipendenza che ad ogni passo sembrava rubarsi un battito del mio cuore, sembrava rubarsi la mia capacità di respirare automaticamente; ogni passo era un passo verso qualcosa di necessario per star bene, per sentirmi come non mi sentivo da un po’, perché quell’emozione, quell’attesa, quell’ansia, quell’adrenalina che mi scorrono dentro sono tutto quello che mi manca i questi giorni tutti uguali. La folla, le spinte, l’ossigeno che manca sempre di più, il caldo terribile, il dolore lancinante alla gamba che aumenta dopo un involontario calcio, l’ansia e l’adrenalina che si mescolano nel sangue e che annientano qualsiasi altra cosa, il divanetto grigio che mi tiene compagnia insieme a lei mentre mi riprendo e poi quella breve attesa e poi eccoli, di nuovo a poca distanza da me, da noi due; quella mano che si appoggia sul mio fianco per la foto, un ciao che mi fa tremare e una mano che non so dove appoggiare intimidita dal mio tremare come una foglia, “e ma si carica di macchinette poi non le sa usare! Dopo le facciamo noi!” “E’ un imbecille!” uno scambio veloce di battute tra Dani e Ka mentre il commesso armeggia con la macchina fotografica della mia amica. Il diario dato per il verso giusto ed un grazie balbettato e la calma che si riprende possesso di me davanti a due occhi color del ghiaccio.
“Ka questi sono per te” “Grazie!” “… Ka darti il plettro dell’hard rock è come dar via un pezzo di cuore” “allora ricambio… e te ne do uno mio!” e quel piccolo pezzo di plastica bianco con un diavolo stretto tra le mani mentre sgranavo gli occhi; la dedica per un amica che ci tenevo fosse lì, un semplice “a Debora” che so valere qualcosa di più. Il tempo di un autografo da Pedro e poi tornare da Ka per quella foto a cui tengo davvero, quella discussione finita con una risata impressa nella mente, quella discussione che è parte indiscussa del mio sorriso. E poi la firma quasi invisibile sulla cinghia del basso della mia Socia da Ste e poi via. E sedersi sul divanetto ad aspettare che suonino, quello scambio veloce di battute con Omar, quella foto nuova decisamente migliore di quella vecchia, quella in cui avevo due anni in meno, la faccia più tonda e da bambina.
Quel concerto sentito da seduta, perché la gamba faceva troppo male per rischiare, le lacrime che hanno bussato alla porta sul Il Tempo Di Un Minuto, il sorriso grande e spontaneo su Meglio Di Noi Non C’è Niente, la canzone di un amicizia importante, la voglia di saltare data da Gruppo Randa, la voglia di gridare il dolore a quella persona, dirli “e con il sorriso ti regalo questo vaf*******” in Un’Altra Come Te e poi – di nuovo – quella emozione data da Fumo E Cenere, uguale dalla prima volta che l’ho sentita quasi quattro anni fa!
Poi quelle foto venute un po’ a cavolo mentre andavano via e quell’emozione, quella voglia di raccontare quello che è successo per non dimenticare nulla, per sentire che è vero, per sentire che non mi sono sognata tutto.
Il giro per Bologna con l’emozione ancora in circolo e poi di corsa a casa per cambiarsi ed andare a cena al cinese.
Cokazzu con patate, banana in una salsa bianca e una palla gigante il simbolo delle risate della serata, anche se non sono solo loro i protagonisti.
Domenica 23 maggio 2010.
Prepararsi per lasciare quell’ossigeno che abbiamo respirato, prepararsi per tornare alla normalità, a quella normalità che corrode.
Il percorso dentro alla sigaretta gigante che mostra i danni del fumo e la corsa per non perdere il treno. La stanchezza, il caldo ed i pensieri si fanno sentire, ma il sorriso è ancora sulle labbra e in una piccola luce negli occhi.
E si arriva alla fine e si deve ringraziare ed è quasi triste come cosa, mi fa pensare alla fine, ma non è la fine perché tutto resta vivo nella parte di cuore dove i ricordi migliori vivono fino alla fine dei nostri giorni.
Grazie a chi ho incrociato anche solo per un attimo.
Grazie a chi mi ha fatto ridere e star bene.
Grazie alle persone con cui ho condiviso le giornate.
Grazie alla mia Vice Boss Cognatina Mascalzona Vice Vacca Lepre Marzolina per essere riuscita a farmi star bene come non stavo da un po’, per essere riuscita a sopportarmi per due giorni interi, per essere stata con me.
Grazie a loro quattro, come sempre grazie a loro per le immancabili emozioni, per le splendide risate e per quella gentilezza tutta loro.